03 Gen 2022

BY: Paola Danieli

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NOEMI e l’incapacità dei suoi genitori di dirle di NO

Imporre dei limiti ai figli, tanto più se adolescenti, è necessario e fondamentale.

La difficoltà di dire no, di imporre delle regole è tanto maggiore quando l’asimmetria, necessaria nella relazione pedagogica, viene a mancare. Quando parlo di asimmetria in educazione intendo la disparità tra educatore ed educando: genitori e figli non possono e non devono essere uguali e sullo stesso piano. Gli aspetti che qualificano questa differenza sono l’assunzione di responsabilità e la diversa consapevolezza.

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09 Dic 2021

BY: Paola Danieli

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Salvarsi dalla dipendenza affettiva: 8 passi per liberarsi dalla tela del ragno

Le ragnatele sono fatte apposta per conservare al loro interno le prede a lungo: sono costruite attraverso l’unione della seta in vari punti ben precisi perché reggano la tensione, la pressione e il peso.

Il ragno è capace di emettere due tipi di filamenti per intrappolare meglio: il primo tipo è creato per agire direttamente sulle vittime, bloccando gli insetti di cui si ciba, mentre il secondo è quello utilizzato per costruire la ragnatela, oggetto di studio di molti ricercatori per via delle sue proprietà tecniche. Essa, infatti, pur apparendo fragile e facilmente annientabile, quasi un nulla, è particolarmente resistente: il suo carico di rottura è confrontabile all’acciaio di alta qualità!

Il ragno agisce in maniera inesorabile sia sull’insetto che intende catturare, sia sull’ambiente che lo circonda, creando una condizione difficilmente contrastabile perché più la preda si dibatte più si immobilizza: i mezzi che usa sono all’avanguardia per capacità di annichilimento.

Anche la condizione di chi è vittima di dipendenza affettiva è di annichilimento, travestita da un intensissimo, appassionante, totalizzante ed ossessionante modo di vivere le relazioni d’amore.

Il rovescio della medaglia è rappresentato dalla consegna completa ed incondizionata di se stessi ad un altro essere umano. Le relazioni che partono con queste premesse sono caratterizzate dall’invischiamento, proprio come se ci si trovasse in una perfetta tela tessuta da un ragno che sa il fatto suo: ovunque si metta piede si resta appiccicati e il passo successivo non fa che aumentare il legame e allo stesso tempo il senso di trappola, fino a sentirsi completamente preda o vittima del ragno, in uno stato di disarmo e passività.

Si è martiri della dipendenza affettiva quando si concede troppo, quasi tutto di se stessi, giustificando il brutto carattere del partner e i suoi soprusi, adattandosi a qualsiasi condizione e lasciando inascoltati i propri bisogni per modificarli e piegarli alla volontà dell’altro.

Questo stato di schiavitù emotiva mette a repentaglio la propria sanità mentale, minando alla base l’autostima e il proprio senso di identità, malgrado umiliazioni, pesci in faccia e prove evidenti che non si tratta di una relazione di reciprocità ma di un vero e proprio senso unico.

Talvolta si realizza a fatica di essere vittime di una vera e propria dipendenza perché i legami rendono sempre un po’ dipendenti e il dipendere fa sempre un po’ parte dell’amore. Ma alcune volte la partita si complica, ci si ritrova veramente fragili e vulnerabili a mendicare le briciole di un riconoscimento affettivo, probabilmente quello che non si è mai riusciti ad avere.

Cosa protegge dalle dipendenze affettive? Probabilmente l’essersi sentiti riconosciuti e di valore nelle relazioni primarie, l’essere stati amati abbastanza, l’essersi sentiti voluti, desiderati e amati.

La “ferita dei non amati” apre la strada a tentativi di saldare crediti emotivi che risalgono a molto tempo prima e allora si puntano i piedi sulle relazioni sbagliate, sperando di ottenere, finalmente, il dovuto risarcimento.

 

Uscire dalla tela del ragno significa:

 

  1. Riconoscere di aver abdicato il proprio progetto di vita a favore di quello del proprio compagno;
  2. Prendere atto che sarà un passaggio di sofferenza, ma molto meglio soffrire per il proprio bene che per il proprio male;
  3. Farsi carico della propria situazione: nessuno può salvare la vittima della dipendenza affettiva o sostituirsi ad essa;
  4. Normalizzare il senso di vuoto: solo accettandolo e sentendolo si trova la strada per colmarlo;
  5. Sperimentarsi nel darsi cura e amore. Il vuoto, nel tempo, sarà colmato dal benessere che deriverà da questa nuova capacità;
  6. Imparare a riconoscere quali sono le relazioni positive e quali quelle negative, quali quelle in cui si è amati e quelle in cui ci si sente usati;
  7. Comprendere dove e quando si è gettato il seme della propria fragilità; dove e quando e perché si è rinunciato a costruire un progetto proprio.
  8. Prendere coscienza del potere che abbiamo all’interno delle nostre relazioni per poter passare da un ruolo di vittima ad un ruolo di protagonista. Vittima e carnefice si incastrano perfettamente in atteggiamenti complementari, come la chiave nella serratura. Ogni vittima esiste grazie al proprio carnefice e viceversa. La “vittima” dipendente affettiva percepisce il proprio compagno in maniera idealizzata, come potente e invincibile, esaltandolo senza sospettare minimamente di avere a che fare con una personalità fragile e deteriorata e senza immaginare di essere necessaria e indispensabile al proprio “carnefice”.

 

 

Molte persone ci sono riuscite e sono uscite dalla tela del ragno ricostruendo, seppur faticosamente, la propria identità e la propria vita.

 

23 Feb 2020

BY: Paola Danieli

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Paura, ansia e Coronavirus

Da alcuni giorni viviamo una nuova esperienza, che fino a questo momento avevamo avvicinato solo attraverso i film di fantascienza: l’epidemia di Coronavirus, partita da Wuhan in Cina nel dicembre scorso e diventata emergenza globale. 

Ci siamo abituati in poche settimane a immagini inusuali ed angoscianti, come quelle delle strade deserte, dei medici vestiti da palombari e delle relazioni sociali gestite con le mascherine.

Da venerdì, poi, il film è arrivato prepotentemente anche in Italia, Lombardia e Veneto, purtroppo non virtualmente nelle sale cinematografiche, ma nella realtà dei nostri ospedali, delle nostre case, delle nostre osterie.

Le pandemie e la paura nella storia

La psicosi contro le pandemie è antica come la storia dell’umanità, ma non si trattava di una pandemia 2.0, come la nostra, in cui internet e la televisione fanno da cassa di risonanza di tutto quello che accade.

La descrizione degli eventi e delle sofferenze era affidata a chi utilizzava la propria forma di narrazione, come la scrittura o la pittura: Boccaccioci ha raccontato la peste del 1300, Alessandro Manzoniquella di Milano del 1600, Giovanni Vergaquella del colera nel 1800, in cui perse la vita anche Giacomo Leopardi, Edvard Munchci ha dipinto la febbre spagnola all’inizio del ‘900, la più grande pandemia di cui si abbia traccia.

La peste nera che, tra il 1347 e il 1352, infuriò in Europa decimando un terzo della popolazione, portò con sé, come ci racconta il Boccaccio, violente emozioni capaci di sfociare in autoflagellazioni per espiare le colpe agli occhi di Dio e nella persecuzione degli ebrei, accusati di avvelenare l’acqua dei pozzi.

Anche nel caso della peste raccontata da Manzoni nel racconto storico “La colonna infame”, la paura collettiva si convertì nella ricerca dei colpevoli e si sospettò che nemici senza scrupoli del Ducato di Milano avessero diffuso il contagio per indebolirlo. Furono individuati due colpevoli: Guglielmo Piazza, Commissario di Sanità e e Giangiacomo Mora, barbiere, denunciato dal Piazza dopo giorni di torture che gli fecero confessare pene inesistenti. I due capri espiatori furono impiccati sulla pubblica piazza.

Giovanni Verga nel 1887 nella novella “Quelli del colera” mette al centro dell’attenzione la popolazione “vittima” di presunti malati di colera; questi ultimi sono i cosiddetti “untori” propagatori della malattia.

La più grande pandemia capitata all’umanità fu la febbre spagnola, tra il 1918 e il 1920, che decimò tra cinquanta e cento milioni di persone in tutto il mondo. Fu definita anche “la strage invisibile” perché occultata prima dalla censura militare e poi dalla generale amnesia. Fu anche l’epifenomeno della nascente globalizzazione: l’enorme spostamento di uomini e merci, unito al carnaio delle trincee, agevolò la diffusione del virus. L’urlo di Edvard Munch, non è che un autoritratto dell’artista febbricitante perché colpito dalla febbre spagnola.

Il filo conduttore di queste psicosi, che per millenni hanno tracciato la nostra storia ha solo un nome: LA PAURA, quella che toglie la razionalità e spinge con campagne di odio verso il presunto colpevole, per orientare la frustrazione. La rabbia l’aggressività trovano un nemico certo e visibile: il cinese, il complotto della Cina, lo straniero, l’altro in generale.

Tutto questo ha la funzione di spostare l’attenzione dal tanto temuto Coronavirus che ha una caratteristica fondamentale che terrorizza:

E’ INVISIBILE!

A cosa serve la paura e quali conseguenze può avere?

La paura è un’emozione di base fondamentale (basic instinct), che ci permette di reagire davanti a un pericolo e di decidere quale reazione sia più utile per proteggerci, ci impone di fuggire, combattere o “congelarci” in attesa che la situazione si risolva. Sperimentarla è essenziale, se si vuole sopravvivere: un animale capace di sentire il pericolo vivrà abbastanza da trasmettere il suo patrimonio genetico alla prole.

Nelle situazioni di paura l’amigdala scatena una serie di reazioni neurali e di risposte chimiche che ci predispongono alla sopravvivenza. Il respiro si velocizza, il metabolismo si riempie di zuccheri per darci forza, l’intestino e la vescica si svuotano per renderci più leggeri nella fuga, i peli si drizzano per renderci più temibili al nemico e aumentano i livelli di cortisolo nel sangue. Se lo stress non si risolve in fretta la condizione traumatica può risolversi in una condizione più strutturata, quella del trauma.

Perché il Coronavirus fa paura?

Farsi coinvolgere dalla paura del Coronavirus può essere travolgente e degenerare in una sorta di contagio sociale e di regressione deresponsabilizzante alla ricerca del colpevole e del capro espiatorio, che ci allontanerebbe dalla possibilità di utilizzare i nostri strumenti razionali per creare una condizione di prevenzione e sicurezza.

Il motivo per cui la febbre spagnola ha fatto decine di milioni di morti è stata la mancanza di informazione. I giornali e i governi non diedero notizie del virus e della sua propagazione. Di certo a noi questo non è accaduto, il rischio semmai è quello delle fake news o della indigestione di dati e notizie.

Cosa ci serve per affrontare la paura del Coronavirus?

Ci serve, innanzitutto, il buon senso di accogliere la nostra paura o preoccupazione: ci troviamo di fronte ad un’esperienza nuova, è del tutto normale sentirsi al di fuori della tanto citata “zona di confort”.

Come abbiamo visto, poi, la paura è adattiva, ci serve per sopravvivere, ma se la risposta è sproporzionata si rischia di perdere la capacità di valutazione dei rischi e di assumere comportamenti non funzionali alla prevenzione o alla cura.

Come affrontare la paura da Coronavirus?

Usando nella nostra quotidianità alcune parole chiave:

FIDUCIA, RIFLESSIONE, BUONE RELAZIONI, BUONA INFORMAZIONE, CONRONTO, DIALOGO, ASCOLTO.

Sarà necessario nelle prossime settimana ascoltare i consigli pratici e ufficiali dei sanitari , ma anche accettare l’insicurezza, confortati dai nostri affetti più cari e dai nostri amici più stretti.

Il confronto e il ragionamento rappresentano i migliori antidoti per comprendere i rischi reali e la possibilità di difendersi, senza rinunciare ad una giusta dose di timore, che ci consente di stare con gli occhi aperti.

16 Feb 2020

BY: Paola Danieli

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La fine di una terapia, la testimonianza di Sara

Intraprendere un percorso di psicoterapia non è semplice e neppure scontato, ma i dubbi nascono anche quando le terapie si concludono. 

Spesso i pazienti si chiedono se, alla fine del percorso, saranno in grado di “funzionare” meglio, oppure se sapranno capire quando sarà il momento di chiudere, timorosi che quella relazione possa diventare una dipendenza.

E’ un momento carico di significato e ha un forte valore simbolico: quando si chiude il legame esclusivo tra terapeuta e paziente, entrambi sono posti di fronte a questioni complesse, come la separazione e la perdita, ma anche l’autonomia e il distacco; il paziente può trovarsi di fronte a una situazione d’incertezza e sentirsi di nuovo vulnerabile. 

La chiusura può avvenire per svariati motivi, sia legati alla conclusione naturale del ciclo, che ha portato ad una nuova condizione di benessere, sia per resistenze del paziente a cambiare, per errori del terapeuta, oppure per ragioni esterne, come un trasloco, la cessazione dell’attività lavorativa del terapeuta, l’impossibilità a sostenere economicamente la terapia.

Questo tipo di relazione, come qualsiasi altra, non è soggetta a conclusioni standardizzate, ma mette in gioco una serie di variabili imprevedibili, legate alla coppia paziente-terapeuta.

Ma come capire se una terapia ha funzionato? I sintomi con i quali il paziente è arrivato sono ora tollerabili e gestibili, perché sono stati elaborati gli eventi e le esperienze che ne sono state la causa ed ora si possono affrontare le sfide che la vita propone, in maniera autonoma ed indipendente. Alla fine di una terapia il paziente dovrebbe sentirsi pronto a continuare il suo percorso di vita e di crescita personale.

Questo è il momento in cui si valuta il lavoro svolto e il livello di soddisfazione, gli ostacoli che sono intervenuti nel percorso e l’efficacia della metodologia utilizzata.

Con la fine di una terapia, però, si chiude anche una fase di vita e se ne apre un’altra, che passa attraverso la separazione. Non è raro che il paziente sia attraversato da emozioni di tristezza, perdita e smarrimento ed è compito del terapeuta offrire la propria disponibilità ad un eventuale sostegno futuro, ma anche incoraggiare a proseguire il proprio percorso di vita in autonomia. 

È normale sperimentare una certa tristezza per la fine di un processo terapeutico, che può essere stato molto intenso. 

Terminare una terapia significa l’inizio di un funzionamento indipendente, un nuovo equilibrio, un cambiamento strutturale interiore, tutti aspetti che danno conferma di un buon risultato terapeutico.

Riporto la testimonianza di Sara, una giovane donna di 35 anni, alla fine della sua terapia, intrapresa dopo un grave lutto:

Mi sono avvicinata alla psicoterapia in un momento della mia esistenza in cui mi sentivo completamente smarrita. Come se all’improvviso ogni mio punto di riferimento fosse venuto a mancare e non fossi più in grado di capire chi fossi e dove stessi andando.

Il giorno in cui mi sono detta “ho bisogno di aiuto” è stato il più saggio della mia vita!

Ho intrapreso un viaggio all’interno di me stessa  molto intenso, spesso doloroso, ma sempre e soprattutto di scoperta. Ho avuto la possibilità di conoscermi come non mi era mai accaduto prima, di mettermi costantemente in discussione e di migliorarmi.

È un’impresa che richiede coraggio e forza di volontà, perché non è affatto semplice scandagliare la propria anima e ribaltare aspetti di se stessi che si sono sempre dati per certi, scontati… ma, ad un certo punto, arriva la consapevolezza che finalmente qualcosa è andato al posto giusto e da quel momento la vita ricomincia. 

Con le sue battaglie quotidiane, certo, ma soprattutto con la consapevolezza di avere gli strumenti per affrontarla!

09 Feb 2020

BY: Paola Danieli

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L’amore per l’uomo Peter Pan, quello a cui non chiedere mai!

Peter Pan è l’eterno ragazzo, quello che non cresce mai e preferisce vivere e rifugiarsi in una fanciullezza senza fine. La sindrome che porta questo nome descrive una particolare immaturità della sfera affettiva (nanotenia), in cui le relazioni d’amore sono vissute in maniera giocosa, amicale, con nessuna prospettiva di cimentarsi in un legame che possa richiedere delle responsabilità e degli obblighi. 

Peter Pan è descritto da Carl Gustav Jung attraverso l’archetipo del puer aeternus, l’eterno fanciullo, che si contrappone a Senex, il vecchio. Come ogni archetipo è duale:  corrisponde in positivo all’anelito vitale dell’esistenza, al tratto mercuriale dell’andare per scoprire, al non fermarsi mai, al rinnovarsi di continuo e in negativo all’essere dipendente, leggero e incompiuto, individualista e incapace di adattamento e di impegnarsi in qualsiasi cosa risulti d’intralcio alla propria spensieratezza e serenità.. 

Peter Pan è l’uomo libero e felice, che ha ancora davanti a sé tutte le strade possibili e che non ne ha ancora decisa nessuna. E’ simpatico, intelligente, campione di corteggiamento perché interessato alla sua gratificazione narcisistica, spensierato, immune ai legami, sfuggente, egocentrico, misterioso, imprevedibile, bisognoso di primeggiare, quasi sempre ben inserito socialmente, proprio perché è irresistibile. Talvolta, negli ambienti più richiedenti e adulti, come quello lavorativo, è colpito da ansia da prestazione, perché diviene cosciente del gap che lo divide dagli altri: la sua superficialità incapace, versusla responsabilità competente.

Il modello dell’adulto-bambino, è decisamente declinato al maschile ed è molto usato dai media; soprattutto perché il mercato lo individua come l’utente più attivo, o ancora attivo, malgrado abbia già compiuto i suoi primi 40-50-60 anni. In altre parole, permette di promuovere il maschio irrisolto come un vincente che non tramonta mai, un’idealizzazione di giovanilismo stereotipato. Ciò amplia incredibilmente il target dei consumatori, che se si considerassero maturi uscirebbero dalla categoria degli acquirenti.

Sul piano affettivo, malgrado il discreto successo sociale dovuto alla simpatia e alla cordialità, non riesce ad instaurare relazioni intime e durature, poiché non è in grado di assumersi la responsabilità degli affetti che prova, è refrattario alla profondità e condannato alla superficialità.

Non trova mai la donna giusta, così come la casa, il lavoro, la vita. Si accontenta di un’esistenza provvisoria, ma confida in una realizzazione futura. Per per poterla realizzare deve mantenersi libero e pronto, senza mai legarsi stabilmente a niente e nessuno. Nessun legame dunque, nessuna preoccupazione, nessun peso, per poter fluttuare lontano dalla banalità della vita normale.

Posto di fronte alle proprie responsabilità è sempre pronto a scegliere la via più semplice: darsela a gambe.

L’uscita dalla fanciullezza comporta la capacità di individuarsi attraverso gli altri e con gli altri e di raggiungere l’intimità con un partner, senza temere di perdere la propria identità. Peter Pan è capace di ricevere cura, non di darla e questo senso unico nelle relazioni si esprime con egocentrismo, noia, superficialità, auto assorbimento e mancanza di crescita psicologica. Sono soggetti che hanno un gran bisogno degli altri, ma si sentono minacciati dalle richieste degli altri.

Peter Pan ha bisogno di confermare in ogni modo la propria importanza, per compensare, attraverso soggettive affermazioni di superiorità, un enorme sentimento di inferiorità rispetto al proprio valore. Sono uomini che scambiano l’intimità con il sesso e a questo è dovuto l’impegno compulsivo nelle conquiste, che esibiscono per dar prova del proprio giovanilismo e della propria esuberanza.

Si tratta di un uomo che non è più bambino, ma che non riesce ad essere adulto e che usa la “fuga giocosa” e il “sesso ludico-ricreativo” come soluzione estrema alle sue incapacità.

E’ un adulto che non sa nulla sull’amore, neppure di quello per se stesso e chi non sa amare si pone come un bambino che deve ricevere, anziché dare. L’innegabile autostima di questi soggetti è fondata sulla loro intatta onnipotenza infantile, che genera una sovra-idealizzazione di sé, prodotta dal rifugio in una serie di meccanismi di difesa (evitamento, sublimazione, rimozione, proiezione, negazione) che impediscono loro di affrontare la realtà: Peter Pan enfatizza il suo puerin funzione difensiva.

Ritornare alla realtà, per il nostro Peter Pan, significherebbe mettersi alla prova, rielaborare e trasformare, tutte azioni che produrrebbero un’angoscia difficile da contenere e l’avvio di un percorso verso un ignoto frustrante e logorante. Peter Pan, di fronte ad una simile fatica, si chiederebbe : perché lasciare il parco giochi per andare a lavorare in miniera?!

Freud sosteneva che si diventa adulti quando si è in grado di sostituire il principio del piacere con quello del dovere, di costruire relazioni intime e amare, facendosi carico di bisogni e difficoltà di un altro da sé.

Peter Pan può diventare grande? E’ molto difficile, al parco giochi si sta benissimo e la revisione del proprio sé comporterebbe un processo di trasformazione che dovrebbe passare dall’impegno e dalla responsabilità e quindi anche dal senso di colpa e dallo stato depressivo che ne può derivare.

Perché tutte queste parole spese per l’adulto-bambino se lui sta benissimo e non ha nessuna intenzione di cambiare? Perché chi si trova a vivere una relazione con lui sperimenta stati di profonda sofferenza e solitudine, perché i suoi bisogni non si trovano mai al centro della relazione, se non per svolgere ruoli di accudimento e accompagnamento. Con Peter Pan si rischia di essere schiave del suo narcisismo, delle sue scorribande sessuali alla ricerca di nuovi divertimenti, della sua indifferenza, della sua distanza.

06 Gen 2018

BY: Paola Danieli

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Le prime botte non si scordano mai: sesso, amore e violenza tra gli adolescenti

L’adolescenza si delinea come una fase del ciclo vitale caratterizzata da una condizione di “sospensione sociale”, di passaggio, di prova, che causa inevitabilmente un certo disagio.

A quest’età, i ragazzi e le ragazze sperimentano una maggiore indipendenza emotiva dai genitori e da altre figure adulte significative, instaurano relazioni nuove e più mature con i coetanei, sono maggiormente in grado di prendere decisioni in modo autonomo e, infine, iniziano a strutturare un proprio stile di vita, più o meno salutare. Una delle principali sfide dell’adolescenza è quella di essere in grado di istaurare una relazione di tipo sentimentale.

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15 Lug 2017

BY: Paola Danieli

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Uscire dall’inferno: allontanarsi da una storia distruttiva e mortificante

Ci sono relazioni che, anziché vitalizzare, mortificano.

Eppure, talvolta, invece di chiudersi definitivamente lasciano uno strascico molesto e disturbante, che viene alimentato da una fiammella di comunicazione continua e ininterrotta con cellulare o social network. Ci si trova invischiati in una NON-relazione che non da nulla, toglie e basta.

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27 Gen 2017

BY: Paola Danieli

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Violenza sulle donne: in gruppo per uscirne, le testimonianze dalla viva voce delle protagoniste

Lo scorso anno ho finalmente realizzato un’ idea che avevo da tempo: creare una rete tra le mie pazienti accomunate dall’esperienza della violenza subita, sia fisica, che psicologica, economica e sessuale. Mi piaceva l’idea di scardinare simbolicamente i concetti di solitudine e isolamento, che sempre si presentano in queste vicende.

Ho proposto di partecipare sia a donne che avevano un percorso terapeutico in atto, che ad altre che l’avevano già concluso. Il gruppo è rimasto attivo per 7 mesi, con cadenza quindicinale, in orario serale, completamente gratuito. Si sono incontrate persone molto diverse tra loro, tra i 30 e i 60 anni, con e senza figli, con storie di maltrattamento vicine o lontane nel tempo.

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08 Gen 2017

BY: Paola Danieli

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“Non mi perdono di averti scelto”: lettera di una donna all’uomo sbagliato

Scegliere l’uomo sbagliato, evidentemente sbagliatissimo, ma resistere, aspettare, portar pazienza, accettare di essere calpestate. Eppure era tutto chiaro, eppure tutti l’avevano capito.

Purtroppo è un problema condiviso da molte: questo è uno scritto di una paziente che ha scelto l’uomo sbagliato e non riesce a perdonarselo.

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28 Dic 2016

BY: Paola Danieli

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Amore gassoso al tempo di Whatsapp

L’inconsistenza in amore e nelle relazioni in generale è sempre più comune.

Dopo aver tolto l’impegno, i vincoli istituzionali, le promesse, la responsabilità, ora togliamo l’ultimo grande protagonista: il corpo.

Sembra che la virtualità abbia contribuito a separare la comunicazione dalla relazione. La prima non è più una funzione della seconda, può esistere fine a stessa, scarnificando però il senso stesso di rapporto umano.

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